No es que rosa de fulgor, el cielo que Dante contempla, creación del martirio de Cristo. Rosa que florece la "plenitudine volante" de angeles, y el pueblo de los redenti, que, emerge la mirada en la "luce trina".
El tercer cantico es poesía de la mística, cual realidad dell'intus que experimenta dudas, sufrimiento, catarsis después del tiempo de la "selva oscura", antes de prevenir al dono de la fé. Representación concreta de una verdad conquistada a fatiga, que se aparece de improviso en el espacio de la luz, rivelación "el ser  del mundo": Logos. El cual refunda el cosmos y replasma el hombre asumiendo la condición y se trasmuta en "hombre del dolor" en el turbinio del Golgota, la cual ténebra está desgarrada del "consummatum est".
La muerte de Cristo deviene "lux mundi".

" In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa"

Capolavoro de la poesía el Paraiso estrinseca la necesidad de superar las incertesas terrenas y de unirse, recojiendo el enigma de la sconfitta, al Dios de la paz. En  su meditación es el drama de la naturaleza trafitta de la historia, no dispuesta pero a la nada. Suyo el destino de la "spes contra spem", de una desesperada esperanza que constringe, en el fondo de la noche, a esperar un germen de luz.
A la rosa dell'empireo Silvio Benedetto dedíca una particular obra. Pintura extraordinario en la esencialidad figurale que escapa de las construcciones arquitectónicas y narrativas. Sintetiza en la unidad  dos iconos una idea compleja de la "Jerusalem coelestis", pasional y existencial, que no ilustra, ni comenta el canto XXXI. Se trata más que de la sapienza intelectual de un teólogo, del travaglio religioso de un hereje. De un artista que junta fragmentos de espiritus en lo cotidiano y que mira al Paraiso con el alma y la carne, madide de perfumes y afrori.
No pudiendo como el peregrino Dante sumergirse en el sol infinito y vivir la gracia de  los puros, la caridad que perdona, el magnificat degli umili, el pintor retrae su paraiso privado de los beatos "di fiamma viva" y de los santos "d'altrui lume fregiati e di suo riso". Concibe l'mpireo a su imagen, fragante de amor . Proyección de existencia consumada en la calle, en el infierno de un presente inundado de fiele más que de mil. Pero es su visión. El la trae de la materialidad corporea y de la realidad a él consustancial, en grado de explicar el sentido de su arte. Plenamente física la imágen del Paraiso, aunque llena de simbolos, palpitantes de vida y muerte, de orgasmo y delirio, de  lujuria y  piedad.

Es un irregular de la fé Silvio Benedetto. Religiosidad, la suya, arcaica: signo de ancestralidad, magia, sacrificio, rescato. Se radíca en la civilidad campesina, mediterranea y latinoamericana, mostrando la urgencia del otro horizonte, percibido de la teología de la liberación. Sorprende ahora la apertura al pensamiento medieval, tomistico y dantesco, casi un deseo de superación, a traves de la metafísica cristiana, de su confin. Por esto, inspirado del "gran fiore", exprime en la forma pictórica, con dualidad manichea, l'"itinerarium mentis et cordis" hacia la luz, que aveces llega y dolorosamente aprisiona antes en la carne y luego sobre la tela.
Luz inquietante, del hombre y de Dios, que traza el cammino en dirección del sepulcro. No ritualista, ni patética la luz. Posee el lamento del "Lamma sabactani" y el bálsamo del llanto. Espiritual y sensual se expande en el espacio de un cielo dorado, que recoge secretos, traiciones, vacios, esperanzas.Luz que irroga cada vida, también la dannata.
En la espacialidad reluciente de oro el artista compone una gran rosa y la imagen del crucifijo.Fuerte el contraste. Está en plena floresencia la rosa, saturado de carne y sangre, spruzzata de amarillo y maculata de rojo.

"Rosa purpurea" che rotea come astro, significante l'empireo. Posta in primo piano sembra sormontare la sommità immaginaria di un monte, i cui crinali sono rivoli vermigli. Anche i labbri dei petali sono vermigli, mescolati all'ocra limpido che carezza le membra del fiore.
Silvio Benedetto formula una visione nuova del paradiso, fatta di passione. Non astratta. Traspone nello spirituale l'umano che si esprime con gesti e segni. La rosa, nel rapporto d'amore, è metafora di donazione e condivisione: sugella il paradiso ritrovato dall'uomo e dalla donna.

Paradiso
La valle delle pietre dipinte
Campobello di Licata . (AG)

Dunque la rosa è paradiso. Sensuale. Dimentico di Bernardo che guida Dante nell'empirio  svelando il "gaudioso regno" e i volti di Francesco, Lucia e Beatrice, il pittore trasfonde nella rosa la pienezza dei sensi che contraddistingue la Sulamite del"Cantico dei cantici". Un paradiso che ricorda la carnalità di Maddalena, lo slancio di Caterina da Siena, l'abbandono di Teresa
d'Avila, il profumo di Teresa di Lisieux. Di ogni donna innamorata che scopre con il corpo e con la fede l'amore.
Riassuntiva della poesia lirica e della mistica è l'immagine della rosa. Cielo d'Alcamo la dice "aulentissima": la patristica chiama Maria "Rosa di Gerico". La Vergine madre è "la rosa in che il Verbo divino / carne si fece": mediatrice tra cielo e terra. Lei paradiso di salvezza:
"Donna, sé tanto grande e tanto vali che qual vuol grazia e a te non ricorre sua disianza vuoi volar sanz 'ali ".
Ogni donna è parte della rosa per Silvio Benedetto. Ed è questa rosa che egli offre al Cristo del calvario, che con braccia protese in alto si staglia nella luce. Piccolo crocifisso, paradiso di dolore, in cui si assomma la tragedia della natura e della storia. E' il Cristo partecipe della morte dell'uomo, così come lo vuole la sacra scrittura e l'olocausto che da secoli si consuma sulla terra. 

Piegato nel corpo, simile alle icone di Cranach e Dürer, ma anche di Velasquez, Sutherland e della pietà popolare il "servo di Jawè" è inchiodato nella chiarità infinita che svela, di là dal venerdì, l'alba della Pasqua.
Non è forma astrattiva, ma concreta il crocifisso. Non fantasma, bensì corpo maciullato, splendente nel martirio della luce che costituisce l'essenza di Dio. Quasi fuoriuscente dalla rosa, dalla matrice femminile, il Cristo dell'artista italo argentino si dona al mistero con membra straziate. Scolpito nella bocca, buco catramoso, è il grido che deflagra nel cosmo e motiva il lamento di adulti e bambini. Coronato di spine il capo e da fluenti capelli che addolciscono il volto. Il dorso si allunga, stirato e strappato, sino a divenire esile, mentre le mani sono inchiodate verticalmente nello spazio.
Disegno organico, tragicamente liberatorio, che ritma con tratti circolari e a spirale la figura: la tormenta con incisioni, la scava con macchie, le rende fremente di giallo. Anatomia del Cristo contemplato con sentimento e intelletto per il suo essere luce: alfa e omega. Spiegazione unica del cosmo, soprattutto dell'empirio che rifulge della "scientia crucis" che Juan de la Cruz ed Edith Stein conoscono nella solitudine del carmelo e del lager.
Gli ultimi canti della Divina Commedia costituiscono per l'artista, struggente poetica, eresia che gli permette la creazione di un suo paradiso. Dipinge d'eros e candore la "somma luce" vedendo dinanzi a sé il Cristo del patibolo e l'umanità redenta, adombrata dalla rosa.

Giovanni Bonnano
(ordinario Storia dell'Arte, membro della
Commissione d'Arte Sacra e
dell'Evangeliario Moderno)
 

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