tiepida
nelle mie dita impronta nella lastra di cera.
La contorce, la muta in definito volume. Ciò che ho
toccato
toccherai in queste sculture per "tener in
mano".
Percorrerai anche il convesso dove ho
lasciato la spinta del modellato. Così ho voluto
oggi. Una sottile lastra. Domani, invece,
tortureró
e masticheró della cera compatta...
La forma è in
te,
o forse in me, bisogna catturarla
e fissarla nella cera e suggellarla col fuoco e col
bronzo...
l'occhio disegna l'aria con leggerezza, circonscrive spazi, la mano
preme senza esitare...
Modellare:
soave compiacenza umana; recondito moto di raggranellare carezze, sommerso
comando di premere la materia trasformando la sua forma; smemorata
voglia di memoria; desiderio di lasciare traccia di noi. Alzare castelli di
sensazioni tattili sorretti soltanto dall'emozione... il
"tocco" si alza verticalmente in una "pittura"
di argilla monocroma tridimensionale. Se l'impronta vibrante scompare
dal tuo modello in creta imiti la pietra e il bronzo diviene monumento...
ma forse "l'impronta vibrante" è fragile farfalla se la
scultura è destinata alla piazza.
E
la creta? Ah! la creta.
Ti sei mai rotolata, abbracciando col tuo corpo l'altro corpo sfuggente
nell'argilla
scivolosa?
E
il marmo? per il marmo ci vogliono i titani, sensibili però. O
dèi, sensibili però, che col feroce colpire fanno palpitar la
marmorea pelle. Ma forse, oggi, gli dèi dormono, e son desti
burocrati torneatori di forme seriali pantografate... ma,
senti.
Senti
questa forma.
COME
UNA RELIQUA O UN AMULETO diMichele Perriera *
C'è
qualcosa di struggente nell'esistenza e negli esiti artistici di
Silvio Benedetto: uno strenuo farsi carico della propria straripante
umanità.
L'uomo e l'artista gettano nel mondo, insieme, la passione della
propria unicità e la malinconia della propria caducità; il
febbrile godimento della vita e la gelida, assorta angoscia della
morte. E questi sentimenti gravi e sensuali si intrecciano -
commuovendosi e scherzando insieme - con malizia e candore
scopertissimi, rivolgendo alla vita il volto bifronte della
sacralità e dello sberleffo. Un'ossessione dell'esserci: ed anche
una mania di memorie, di fantasmi, di giochi. Un gioco a nascondino
con la storia. Un ritrovarsi come perdersi e un perdersi come
ritrovarsi.
Mezzo
argentino e mezzo italiano, mezzo dongiovanni e mezzo patriarca,
mezzo sognatore e mezzo impresario, mezzo realista e mezzo
surrealista, mezzo intransigente e mezzo sprecone, mezzo virtuoso
del disegno e mezzo dissacratore del segno, mezzo randagio e mezzo
sedentario, mezzo modernista e mezzo archeologo. Mezzosangue senza
tregua, Silvio Benedetto rappresenta, con sorprendente cordialità,
le misantropie più affettuose e più socievoli di questa fine di
secolo. Ed è in questo eccesso di contraddizione l'enigma che
accompagna tutte le sue opere: nell'essere il frutto di un indolente
e tuttavia inesauribile amore folle, che appare come sproporzionato
al sospettoso tempo in cui viviamo, all'avara e spietata coscienza
dell'epoca. Perciò l'uomo e l'artista assumono in Silvio Benedetto
il carattere schiumoso ed effìmero del comédien, un'enfasi
perversamente tenera e indifesa sul gretto palcoscenico del mondo.
Del resto egli è di quelli che hanno ceduto l'anima al Novecento,
in cambio di un ritorno alle remote magie dell'origine.
E come
magia dell'origine guardo ora questo piccolo bronzo che Silvio
mi ha inviato. Ritrovo la sua ossessione delle curve, il suo
barocco interrato e stralunato, la sua consacrazione
all'esperienza marginale e immaginaria. Dentro queste volubili
forme della conservazione di un mito, nel cavo di un mito
povero e alla buona, si posano due piccole creature, nude come
miserabili o come profeti, tenere e mostruose come feti o come
bambolotti primitivi: quei due esseri nani - una madre e un
figlio forse - sono come incassati in qualcosa che ricorda una
valle o una vulva. Attorno a loro si elevano come due piccoli
mondi o due piccole e gonfie ali. Ed è come se quei due
esseri incompiuti affidassero la loro poverissima
sopravvivenza e il loro
Maternità bronzo
1990
(su unica lastra di cera)
desiderio di
volare al loro stare nascosti, al loro mimetizzarsi nelle grotte
naturali di una terra o di un corpo aridi e disadorni. Come se fosse
questo, questo celarsi nei miti più elementari, questo scendere nel
più disadorno bunker dell'amore - il modo per sfuggire o
sopravvivere al massacro che incombe.
Archeologia e consumo, sacralità e corruzione, tenerezza e
maledizione fanno di quei due piccoli dèi due poveri contenitori di
energia. Essi non sono nati per "migliorare" e
"abbellire" il nostro mondo: non hanno potenziale
decorativo. Sono fatti per essere toccati, osservati da vicino, per
accompagnarci come una reliquia o un amuleto. Per contenere un
fluido protettivo, un affettuoso esorcismo al mondo sempre uguale
dei massacri.
Del resto Silvio Benedetto ha sempre disegnato,costruito,
rappresentato veri e propri totem, reperti inattuali di una cruda e
affettuosa magia bianca. Sono abbracci, volta a volta, di addio e di
ritorno.Come se il contatto liberasse dalle prigioni e dagli esili
che la storia minaccia.
E restituisse, poverissimi, alla protezione e alla pace di un
indicibile sogno materno.
MICHELE
PERRIERA (dalla mostra" La metafora della montagna"
bronzi di S. B. al Palazzo dei Normanni
Palermo 1991)